Ticino

Il grido di dolore di Hodan: ‘Fate venire i miei figli’

Somala, di 33 anni, per due giorni ha manifestato davanti alle Orsoline. I quattro bambini minorenni sono in Kenya, soli. Ma con un Permesso F, la Sem dice no

Ti-Press/Crinari
16 gennaio 2020
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Si chiama Hodan, ha 33 anni e viene dalla Somalia. È seduta da due giorni davanti a Palazzo delle Orsoline, con in mano una piccola bandiera rossocrociata e un cartello. Che con un grido silenzioso chiede attenzione ai membri del governo. Un cartello pieno di dolore e rassegnazione. E di tutte le angosce che una madre con quattro figli minorenni tra i 16 e i 12 anni lontani, soli, può provare mentre la legge le spiega perché non possono raggiungerla qui in Svizzera.

Si ritrae timorosa quando proviamo a parlarle. Ha paura. «Sono un giornalista». Annuisce. Parla poco e male italiano ma comincia ad aprirsi, Hodan. E a raccontare la sua storia. È arrivata in Ticino dalla Somalia quattro anni fa, assieme a suo marito. Ha attraversato l’Africa, fino alla Libia. Incinta e senza i figli, voleva evitargli la traversata. Poi il mare. E quattro giorni dopo l’arrivo in Ticino la nascita della figlia, con la speranza, chissà, di una vita più fortunata. Che non arriverà. Non parla Hodan, sussurra. Timida e impaurita, sconfortata. «Non ho potuto andare a scuola e lavorare, con la bambina piccola» dice. Il marito, che non è però il padre dei quattro bimbi lontani, ha raccolto per anni pomodori in campagna, ma ora ha perso quel lavoro. Abitano a Giubiasco, sono aiutati dalla Caritas e dal Soccorso operaio svizzero, ma la legge parla chiaro: chi è detentore di un permesso F, valido per gli stranieri ammessi provvisoriamente e rinnovabile ogni anno, non può godere del ricongiungimento famigliare. Gliel’ha detto «l’avvocato», gliel’ha detto «anche Berna», poiché è la Segreteria di Stato della migrazione ad avere l’ultima parola. Tant’è.

Gli occhi le si bagnano di lacrime quando dalla mappetta che ha con sé tira fuori due fogli. E ce li fa leggere. Il primo gela il sangue. Proviene dal ‘Madina Hospital’ di Nairobi, Kenya, città dove si trovano al momento i suoi figli. Il 18 settembre 2019 le ha scritto che la figlia quindicenne ha subito uno stupro, con ferite a viso, bocca, denti, collo, busto, cosce e genitali. E spiega, freddamente come fa ogni bollettino medico, lo stato in cui è giunta in ospedale la ragazza. Hodan ha scoperto così che la figlia è stata stuprata, con una lettera.

La lettera dal Kenya: ‘I bambini vivono in condizioni vergognose in una baraccopoli’

Il secondo documento è datato 14 maggio 2019, e le è stato inviato dal ‘Refugee community groups’ del Kenya. Le dicono che i suoi quattro figli sono lì, presso la comunità somala che si trova a Nairobi. E la situazione è critica: “I suoi figli sono a rischio perché non vi è nessun supervisore che li segua durante le loro attività quotidiane (...) inoltre si tratta di migranti senza permesso e privi di basi legali per risiedere in Kenya. Dunque lo scopo di questa lettera è portare il loro dramma all’attenzione delle autorità competenti” in modo che, riassumendo, sia possibile il ricongiungimento con la madre. I rischi quotidiani di questi giovani, per l’associazione, includerebbero “sfruttamento, estorsione e arresti arbitrari”. I ragazzi, si specifica, vivono “in condizioni vergognose, in una baraccopoli nella quale lo squallore è la norma”. Infine il gruppo lancia “un appello umanitario alle autorità svizzere chiedendo di facilitare e sveltire il processo di ricongiungimento famigliare”.

Ma la legge è la legge, condivisibile o meno. Lo sa, Hodan. «Con permesso F i miei figli non possono venire», dice. «Berna detto no», racconta con la voce rotta dall’emozione. Fa freddo, e i due biscotti che ha su un piatto di carta di fianco a lei non possono bastare. L’intervento cortese, educato, umano della Polizia la convince a desistere quando il sole comincia a tramontare. Va a casa Hodan, a Giubiasco. Per passare un’altra sera senza i suoi figli.

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