L'intervista

Forze speciali, un'élite invisibile (ma non son mica Rambo)

Rémy – questo il suo nom de guerre – è il primo ‘operatore brevettato’ ticinese in forza a un Comando pensato per delicate missioni nel mondo.

(Esercito svizzero)
19 dicembre 2019
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Monte Ceneri, dicembre 2019. Rémy si presenta per l’intervista con la mimetica e il volto nascosto da una specie di passamontagna: la sua fisionomia e la sua vera identità devono rimanere protette. Rémy è il primo ‘operatore brevettato’ ticinese arrivato all’unità professionista delle Forze speciali svizzere, ormai dieci anni fa, fresco di scuola reclute nei granatieri. Qualcuno potrebbe aspettarsi una specie di armadio esaltato, un incrocio fra Rambo e i Busto Garolfo Cops di Aldo Giovanni e Giacomo. Niente di tutto ciò: basta poco per capire che sotto l’armamentario d’ordinanza c’è un ragazzo prudente e riflessivo, forse un po’ timido. Non ci sarebbe da stupirsi se quando finisce di sparare o saltare col paracadute aiutasse la vicina con le borse della spesa. «Molti che non ci conoscono pensano che siamo dei pazzi, di primo acchito» (‘di primo acchito’, dice proprio così: segni di un’educazione liceale). «Ma siamo persone normali, professionisti. Non ci sono teste calde, metterebbero in pericolo noi e coloro che dobbiamo proteggere. Quello che invece ci accomuna, e che mi ha fatto scegliere questo lavoro, è la volontà di servire il Paese, di essere utile come altrove non mi riuscirebbe».

Élite in missione

Il Distaccamento d’esplorazione 10 delle Forze speciali è un’unità d’élite dell’esercito svizzero. Non è una di quelle formazioni congegnate per tenere un fronte o far la guerra nel senso classico, ma per missioni quali la liberazione d’ostaggi, la difesa del personale diplomatico nel mondo, l’acquisizione di informazioni sensibili e il primo soccorso in contesti pericolosi. La lunga e meticolosa selezione (vedi sotto) serve a individuare «personalità alfa, ma paradossalmente capaci di lavorare in gruppo. Dobbiamo saperci muovere in autonomia, confrontarci da soli con le nostre scelte e gli eventuali errori, ma anche collaborare e proteggerci a vicenda».

Rémy ora è sostituto capogruppo di una pattuglia, si trova spesso a coordinare da solo una parte del suo gruppo, ed è specializzato «nella ricognizione, nell’uso di apparecchi di visione notturna e termici, nelle armi per il tiro di precisione». In inglese si dice ‘sniper’, la traduzione è cecchino. Va spiegato, però, che un cecchino come lui non passa la vita a sparare ai barattoli da millemila metri, ma ad evitare che qualcun altro lo faccia sugli svizzeri all’estero: la sua esperienza serve ad esempio a trovare i migliori standard di sicurezza per le operazioni di protezione delle ambasciate.

In Libia e in Bosnia

«La mia prima missione è stata in Libia, subito dopo la caduta di Gheddafi», quando nel 2012 la comunità internazionale aiutava la ricostruzione delle istituzioni locali. «Dovevo guidare i fuoristrada blindati per trasportare l’ambasciatore, passando dal traffico più caotico alle piste nel deserto», a volte rese irriconoscibili dalle tempeste di sabbia. È da qui che viene uno dei suoi ricordi più vividi, «quando rimanemmo bloccati nella sabbia e fu un gruppo di touareg a liberare le ruote. Mi ha insegnato che sempre, anche con tutte le nostre tecnologie, i nostri soldi e la nostra esperienza, dobbiamo imparare ad ascoltare la popolazione locale. A volte questo, insieme al buonsenso, serve più di mille libri e dei briefing di missione». In Libia, poi, Rémy c’è stato sei volte in un paio d’anni: le missioni durano normalmente un mese e mezzo.

Un altro ricordo se lo porta dietro dalla Bosnia, dov’era stato mandato per formare alcuni quadri dell’esercito locale: «Gente che perlopiù aveva fatto la guerra negli anni 90, facce che se le vedi in un bar alle undici di sera, probabilmente ci giri al largo». È stato «indispensabile acquisire credibilità presso queste persone che di esperienza ne avevano tantissima, e anche vedere quel mondo dove ancora – penso a Sarajevo – si trovavano le pareti bucherellate dai proiettili e le rovine degli edifici distrutti dai combattimenti». Una cosa fondamentale per un’unità come la sua, oltre alle 54 settimane di prima formazione, è l’addestramento continuo: il gruppo si sposta incessantemente nel mondo per apprendere una formazione trasversale, in centri che sarebbe assurdo costruire qui per un gruppo così piccolo (circa 170 professionisti e 2’500 militi). «Dati i tipi di missione, non possiamo specializzarci: dobbiamo imparare a saltare col paracadute, sparare, muoverci in montagna, orientarci, guidare diversi veicoli, fornire primo soccorso medico...». E poi servono la «capacità anfibia» e «imparare a utilizzare le tecnologie avanzate che abbiamo a disposizione, il che prende un sacco di tempo ed energie».

Resilienza e ‘flow’

La cosa più importante, spiega Rémy, «è la resilienza». In fisica: la capacità di assorbire un urto senza spezzarsi. In questo caso: un misto di resistenza, capacità di recupero e versatilità «anche quando le cose sembrano mettersi al peggio». Gli chiedo cosa gli faccia scattare di più l’adrenalina, ma anche in questo caso lui si rivela più riflessivo: «Nei momenti decisivi, come quando salti giù da un elicottero o ci voli sopra» – seduto con le porte aperte e i piedi sul pattino, «esposto agli elementi» durante le manovre brusche di un volo tattico – «più che l’adrenalina si sviluppa un tipo speciale di concentrazione, un po’ come quando si fanno sport estremi o fuoripista difficili in montagna. Molti sportivi lo chiamano ‘flow’, il flusso», ed è la stessa concentrazione quasi inconscia che aiuta a non farsi male: finora nessuno delle Forze speciali ha avuto incidenti gravi. E infatti «mia madre è più preoccupata quando vado in moto».

Una persona importante Rémy l’ha persa, però: «Il mio caposezione, un vero leader, al quale ero molto legato dopo tanto tempo passato a stretto contatto, in situazioni dove si finisce per conoscersi in modo profondo, intimo». Ma non è morto in missione: «Era in congedo per il suo matrimonio, è stato colpito in testa da una roccia mentre era in montagna». Quanto alla famiglia, Rémy ha una compagna e dice che il suo mestiere non è poi così incompatibile con la vita di coppia: «Certo, è importante che chi ti sta accanto condivida le tue scelte, che accetti certi compromessi». A quanto pare, il tasso di divorzi e single nell’unità non è poi diverso dalla media nazionale. Aiuta anche «il senso di comunità che ci gira attorno, il fatto che le nostre compagne e mogli si conoscano fra di loro, che ci si aiuti» e che lo stesso esercito le sostenga se hanno una necessità mentre i partner sono in missione.

Rémy è orgoglioso di essere stato il primo ticinese ‘brevettato’ nel corpo, «e l’unico, fino all’anno scorso!». È orgoglioso anche di sapere che «forse senza di me le cose sarebbero un po’ diverse». Per questo vorrebbe restare ancora una decina d’anni, «per vedere gli sviluppi che si stanno pianificando, l’ulteriore crescita» di un’unità che la Confederazione sta imparando a sfruttare sempre di più. E poi magari «passare alla formazione degli altri, ma sempre nell’esercito». Ma c’è tempo. Intanto le funzioni del Comando forze speciali si stanno ampliando: la politica comincia a comprenderne e sfruttarne sempre più le abilità. Prima di andarmene chiedo a Rémy se ha un’ultima cosa da aggiungere. Il respiro profondo che accompagna il suo pensiero trasforma in ventosa il panno che gli nasconde la bocca: «Magari una cosa sola, visto che mi parlavi di Rambo. Tutti si ricordano Rambo come simbolo di brutalità. Ma rappresenta gli uomini che hanno servito per anni il loro Paese all’estero, e poi magari fanno fatica ad essere accettati a casa loro: è il simbolo di un impegno, e di un problema col quale l’America combatte da decenni». Un problema che in Svizzera sembrerebbe non esistere, anche per chi in fin dei conti ha un po’ una doppia vita.

 

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IL RECLUTAMENTO

'Onore, modestia, unità': se lavorano bene, non te ne accorgi

Del Comando forze speciali (Cfs) – motto: “Honor, modestia, unitas” – si sente parlare di rado, nonostante tre dei suoi quattro stazionamenti si trovino in Ticino: Monte Ceneri, Isone e Magadino (il quarto è in Svizzera centrale). Il motivo del silenzio è la natura riservata delle sue operazioni. Il Cfs comprende due unità professioniste – il distaccamento d’esplorazione e quello speciale della polizia militare – e due di milizia, granatieri e paracadutisti. Come ci si entra?

La selezione è mirata «a identificare persone preparate dal punto di vista fisico, ma anche equilibrate da quello psicologico», spiega il comandante delle Cfs, il ticinese Nicola Guerini. «Non abbiamo quote fisse, e non dobbiamo arruolare per forza: a volte ne entra uno su duecento, altre volte nessuno». La scrematura iniziale comprende una serie di prove organizzate in un fine settimana, «per non dover comunicare al datore di lavoro quello che si va a fare». Per prepararsi al test «a un impiegato standard servono tre mesi di training, per il quale abbiamo elaborato un programma insieme all’Università di Zurigo». Chi lo passa deve sottoporsi a un controllo medico approfondito.

Poi ci sono tre settimane sotto crescente pressione fisica e psicologica, e chi non ce la fa va a casa. «La cosa più difficile per i candidati è il fatto di non ricevere mai un riscontro sulla loro condotta e non sapere cosa dovranno fare il giorno dopo». Serve a misurarne e rafforzarne la capacità di agire in autonomia, di sapersi gestire da soli come in gruppo, anche in condizioni di pericolo.

Se si è ammessi, si seguono 54 settimane di primo addestramento e poi si diventa operativi. Importante è anche la milizia, «che porta esperienze professionali specifiche: architetti, tecnici, perfino diplomati del conservatorio». La formazione copre anche l’ambito culturale, giuridico e delle relazioni internazionali: «Abbiamo a che fare con diplomatici, quindi l’approccio è forse meno militaresco e più di basso profilo», spiega Guerini. Il problema, aggiunge Rémy, «è far capire loro che le procedure di sicurezza che gli chiediamo non sono frutto di paranoia nostra. A volte è un po’ difficile, perché il fatto di tenerli lontano da situazioni di pericolo può indurre a pensare che quel pericolo non ci sia».

Più in generale, è così che funziona con le Forze speciali: finché lavorano bene, sembra che non stiano facendo niente. Ma la sicurezza – anche per chi non è un militarista fatto e finito – non si costruisce mica da sola. Le Forze speciali partecipano anche a supporto di missioni umanitarie, assicurandone la sicurezza. È il Consiglio federale in corpore ad avallarne le operazioni. Per ora non vi è nessuna donna: «Soprattutto per i grandi pesi che vengono portati, è fisiologicamente impossibile per una donna superare la selezione», ammette Guerini. Che nota come però la loro presenza possa rivelarsi strategica per missioni come la ricerca d’informazioni: «C’è quindi la volontà di creare una piccola unità femminile».

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