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La prima ucraina del Ticino si chiama Mariya. Nata libera

Da giorni chi è fuggito dalle bombe si mette in fila a Chiasso per ottenere lo statuto di protezione. Ci sono madri e bambini, e gli animali di casa

In fila in via Milano 23
(Ti-Press/Pablo Gianinazzi)
21 marzo 2022
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Hanno deciso di chiamarla Mariya, l’amata. È lei la prima ucraina del Ticino, nata per destino e non per scelta alla Maternità di Mendrisio. Lei che nel grembo di sua madre ha attraversato prima la sua patria poi l’Europa per nascere libera, dalle bombe e dal conflitto armato. Al Centro federale d’asilo la sentono un po’ figlia loro. Anche perché la mamma prima di correre, nel fine settimana scorso, verso l’ospedale a partorire, ha fatto appena in tempo a registrarsi lì alla sede amministrativa della Sem, la Segreteria di Stato della migrazione, a Chiasso; staccando così il libretto S. Dalla sua introduzione sul piano legislativo in Svizzera, nel 1998, è la prima volta che lo si applica a favore di chi fugge da un Paese in guerra.

In attesa al 23 di via Milano

Nell’ultima settimana, del resto, sono state centinaia le persone che si sono messe ordinatamente in fila, prima in via Motta e di seguito al numero 23 di via Milano, per ricevere lo statuto di protezione. La grande maggioranza di chi è fuggito dall’Ucraina ed è giunto in Svizzera è composta da donne, anche anziane, e bambini, anche molto piccoli. Attendono il loro turno, di poter varcare la soglia del grande stabile, al seguito gli animali di casa: cani, gatti, canarini e conigli. Una presenza inusuale in un Centro federale d’asilo: alla Sem non si sarebbero mai aspettati di ritrovarsi a raccogliere le richieste delle persone assieme ai loro amici a quattro zampe e a tutto l’occorrente per accudirli (all’inizio della crisi sono capitati sette gatti in un giorno, ci dicono nei corridoi); ma non si è voluto lasciare indietro nessuno. Dopo i primi momenti concitati, adesso comunque va meglio: nel piazzale la colonna supera di poco il porticato d’ingresso.

Fuori il portone dalle 7.30

Qualcuno approda nella cittadina di confine il mattino presto, quando il portone è ancora chiuso. Altri tentano più volte di arrivare a stringere fra le mani il foglio di carta che attesta il diritto di restare, di poter lavorare e ricevere un’assistenza sanitaria. Altri ancora giungono a Chiasso accompagnati da parenti o da chi li ospita a casa loro. Una donna che ha trovato rifugio e accoglienza nell’abitazione di una signora di Ponte Capriasca alfine è riuscita a entrare nel Centro. «Siamo qui dalle 7.30», ci dice la cittadina scesa dal Luganese per dar man forte alla sua nuova amica.

‘La situazione va migliorando’

Dentro il personale del Centro (una cinquantina i dipendenti) da giorni lavora senza sosta, non c’è fine di settimana che tenga. Si fa di tutto per tenere il ritmo delle 150-200 registrazioni al giorno, la soglia fissata da Berna, confidando nei rinforzi. «Con il passare delle ore il nostro processo di lavoro va via via migliorando - rassicura la responsabile della regione procedurale Ticino e Svizzera Centrale Micaela Crippa -. Stiamo velocizzando le pratiche e cercando di reclutare anche collaboratori esterni, tramite le agenzie. Certo agli inizi, durante il primo fine settimana, appena ricevute (venerdì notte) le indicazioni da Berna, abbiamo avuto qualche tensione e alcuni ritardi (di cui mi scuso): purtroppo non potevamo fare di più pur comprendendo lo stato d’animo delle persone. Ora però la situazione è tranquilla. Infatti, per agevolare le procedure abbiamo deciso, non a caso, di trasferire la registrazione delle persone nella nuova sede amministrativa. In via Motta, in effetti, ci siamo resi conto che risultava più difficile sovrapporre la gestione dei nuovi arrivi alla presenza dei residenti».

Su e giù per scale e corridoi

Su è giù per le scale dello stabile di via Milano il flusso dei profughi è composto e silenzioso: l’italiano si mischia a ucraino e russo. Il grande locale ristoro è divenuto una sala d’aspetto, mente nelle salette dedicate d’abitudine alle audizioni i nuclei famigliari possono compilare i formulari richiesti per lasciare le loro generalità. «Qui possiamo approfittare di diverse postazioni di lavoro per la registrazione», ci mostra la direttrice percorrendo i lunghi corridoi dell’edificio. Un saluto e un sorriso non mancano mai, poi a far sentire un po’ più a casa chi l’ha lasciata senza potersi voltare ci sono le interpreti: vi è infatti chi si esprime solo nella sua lingua madre o in russo. A facilitare le pratiche, da mercoledì notte è stata attivata altresì la possibilità – per le persone che hanno un alloggio anche provvisorio in Svizzera - di depositare la domanda per la concessione di protezione temporanea in forma digitale sulla pagina della Sem, a cui si ha accesso dal portale della Confederazione, dove un sistema di semafori segnala i Centri in cui vi è margine per registrarsi. D’altro canto, non occorre affrettarsi ad annunciarsi: lo statuto S non è contingentato.

La giornata viene, dunque, scandita da gesti precisi. «I cittadini ucraini arrivano la mattina e vengono fatti entrare nel Centro e aiutati a compilare un primo questionario con i dati personali. Poi in una seconda postazione avviene la registrazione vera e propria - la responsabile Micaela Crippa ci accompagna passo dopo passo attraverso i passaggi della procedura -. A quel punto, prima possibile permettiamo loro di tornare agli alloggi. E se la persona non ha un’abitazione, viene ospitata negli spazi di via Motta, riservato oggi ai profughi dell’Ucraina».

Trecento posti letto a disposizione

La vecchia struttura ha una capienza di circa 300 posti letto. E per il momento sembra reggere all’onda d’urto dell’emergenza. «Potenziato l’ampliamento dei processi, giovedì mattina in via Motta erano ospitate 139 persone a fronte delle 260 accolte nei giorni precedenti e dei 430 richiedenti globali (Pasture, ndr)», ci aggiorna la direttrice. Ben sapendo che i posti letto a disposizione in Ticino sono 710. Un soggiorno breve quello chiassese per i cittadini ucraini, in attesa di essere assegnati ai Cantoni. La maggioranza, in ogni caso, ha trovato ospitalità sul territorio.

«Sin qui - ci conferma Micaela Crippa - al Ticino sono stati attribuiti 382 profughi. Ebbene, in 327 casi si poteva contare su un alloggio esterno. Certo, vedremo. Verosimilmente nel prossimo futuro arriveranno persone che non hanno punti di appoggio. Lì, a dipendenza del numero, la situazione potrebbe mutare. A oggi è sotto controllo, funziona ed è calma dopo il primo impatto». Sino a mercoledì sera erano state registrate circa 750 persone e avevano lasciato il Centro in 358. «Sinora abbiamo già redatto circa 300 decisioni di statuto S per tutta la Svizzera, mantenendoci in equilibrio tra situazione ordinaria e straordinaria».

Previsto un aumento delle domande d’asilo

In effetti, stando agli analisti della centrale Sem a Berna, ci informa la responsabile, nella primavera inoltrata, tra maggio e giugno potrebbero aumentare le domande d’asilo in generale. Era, forse, inevitabile. Certo è che i sei Centri federali, da Chiasso a Basilea, con una guerra a poca distanza sono andati presto sotto pressione, soprattutto per l’alloggiamento. «Non possiamo dimenticare che accanto ai cittadini dall’Ucraina, come detto, vi sono anche le persone di altre nazionalità che si presentano alle strutture - ci fa presente ancora Micaela Crippa -. Potremo, quindi, arrivare a un momento di difficoltà sul piano gestionale. Penso, però, che se riusciremo a gestire in un modo fluido queste nuove procedure, nello spazio di 24-48 ore sapremo assicurare un ricambio tra registrazioni e alloggi e lo stabile di via Motta potrebbe risultare sufficiente a dare un rifugio a chi non ce l’ha. È chiaro: ciò che è valido oggi potrebbe non esserlo più domani, le cifre cambiano in continuazione».

‘Prima Černobyl poi la guerra’

Come in ogni crisi dietro ai numeri, però, ci sono gli esseri umani, ciascuno con la sua storia scritta in volto. Come quella, ci racconta la responsabile, della donna di una certa età passata per un duplice trauma: l’incidente nucleare alla centrale di Černobyl del 1986 prima e la guerra poi. «Ci ha toccato molto, come la nascita di Mariya». Le ore passano e la fila di gente fuori dal Centro non si esaurisce. Gli unici a non sentirne il peso sono i più piccoli. Un crocchio di bambine con le loro giacche colorate e le trecce bionde e castane si distrae giocando con una piccola pantera di peluche. Una signora che arriva da Locarno nel suo italiano tradisce le sue origini: è qui per sua cognata, fuggita dall’Ucraina e adesso alle prese con la registrazione. Si è lasciata alle spalle la sua vita in una città di cui fatichiamo a memorizzare il nome ma che si trova nella zona di Dnipro, un nome che abbiamo invece imparato bene a conoscere. «Lì - ci fa notare - non le mancava niente. Non avrebbe mai lasciato il Paese». A scacciare lei come quasi tre milioni di connazionali c’è voluta una guerra.

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