Mendrisiotto

Seguendo il filo di Arzo

La passione di una imprenditrice e la sapienza artigiana di tre collaboratrici fanno rinascere l’ultimo maglificio del Ticino. Un po’ vintage e un po’ digitale

Una maglia dopo l'altra (Ti-Press/Pablo Gianinazzi)
24 maggio 2019
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Nella Arzo (aggregata) del 2019 c’è un angolo d’altri tempi: e niente a che vedere con le cave o altre memorie. Al numero 8 di via Rinaldi si racconta (e si rivive) un’altra storia. Di quelle che odorano di filati e matasse e hanno il suono di rimagliatrici e macchine da cucire. Afferrando un immaginario filo d’Arianna, in un attimo si riesce persino a riavvolgere ciò che è stato. Fuori dal labirinto del tempo, sulla soglia di una casa un po’ rétro sul limitare del nucleo del paese ci aspettano Marie-Jeanne, Nunzia, Monica e Daniela. Sono loro, oggi, l’anima del Filodarzo. Un’anima femminile a tutto tondo – come è stato dalle filande in qua – in un mondo (quello del tessile) ora per intero al maschile. A governare i grandi robot che ingoiano filati e restituiscono capi d’abbigliamento, adesso, ci sono degli uomini. Nell’ultimo maglificio ticinese – anche in Svizzera si contano ormai sulle dita di mezza mano –, invece, si preferisce la tradizione: anche le macchine sono ‘vintage’. La modernità sta tutta nella creatività della linea produttiva e nella sapienza delle mani delle lavoratrici. Sono queste le armi segrete di un piccolo mondo antico che realizza capi su misura e si muove sul mercato grazie al web (oltre il portale, www.filodarzo.com, un universo da scoprire).

«Sa – ci dice Marie-Jeanne Childers Guisiano –, all’inizio, nel 1920, questo era un teatro. Vi ha recitato anche Dario Fo con la sua compagnia». E, forse, tutto ciò non è casuale: in un certo senso le ragioni che l’hanno portata ad Arzo sono un... mistero buffo. Nel maglificio, infatti, nel 2017 Marie-Jeanne ha realizzato un sogno di ragazza: «Ho sempre amato lavorare a maglia e creare vestiti. Ma per finire, come capita, ho seguito l’attività di famiglia; poi ho fatto la terapeuta. Per caso, poi, un paio di anni fa – ci racconta –, ho saputo che il laboratorio di Arzo stava per chiudere. Persino i macchinari erano sul piede di partenza, mi sembra per l’Esteuropa. Bene, non ci ho pensato un secondo». Così l’ex fabbrica Bear, alle spalle una storia cinquantennale e (ai bei tempi) una quindicina di operai, poteva avere una seconda possibilità. Lei, Marie-Jeanne, si è reinventata la vita. «Il vecchio titolare – annota – ogni tanto fa ancora capolino per un caffè». Sul fornelletto del locale cucina sul retro del laboratorio, intanto, hanno messo su la moka anche per noi. L’ambiente, del resto, lì al Filodarzo, è familiare. La passione per la maglia, quella, scorre nelle vene di tutte le donne del maglificio. «A me piace tantissimo». Le collaboratrici sottoscrivono. Sarà che i colori sgargianti di matasse e roccoli riempiono gli occhi, mentre le macchine ritmano la giornata. Il bello dell’essere artigiani, poi, è l’opportunità di vestire su misura – nella taglia e nel gusto – i propri clienti. «Un signore, un giorno – ci spiega la titolare – ci ha inviato la foto del suo maglione preferito, ormai usurato, e ci ha chiesto di rifarlo tale e quale. Lo abbiamo fatto felice. In questo modo le persone hanno ciò che cercano, e pure nella tonalità desiderata». Filodarzo, però, ha altresì l’ambizione di diventare un marchio riconoscibile: dallo schizzo al prodotto finito. «Cerchiamo di proporre capi pratici e di grande portabilità. Ma soprattutto – tiene a far sapere Marie-Jeanne – con filati ‘bio’ ed etici. «Infatti, andiamo a cercare la materia prima, non sempre facile da reperire, poi la facciamo tingere in Valle Verzasca». Una scelta consapevole. «Anche se in questo mondo è una giungla». In che senso? «Non esiste una tracciabilità del capo. Succede di imbattersi in una bella fibra, per poi scoprire che non è del tutto naturale. Si fa fatica a ottenere una certificazione sul prodotto. Così pur di allungare la lista dei clienti si raccontano anche delle ‘bugie’». Non c’è una normativa in materia? «In effetti, non esiste nessun obbligo di tracciare un filato fino all’origine – rende attenti Marie-Jeanne –. E non vi sono neppure i controlli. Noi ci impegniamo ad apporre il marchio della balestra – il Swiss Label a garanzia del ‘made in Switzerland’, ndr –, ma nessuno è mai venuto a verificare. Le persone fanno persino fatica a credere che i nostri prodotti sono realizzati al 100 per cento in Svizzera. D’altra parte, basta effettuare l’ultimo passaggio della catena in patria per fregiarsi del marchio». Ecco perché sarebbe importante dare a Helvetia quel che è di Helvetia. «Certo poi i prezzi sono un po’ più alti – ammette –, ma la qualità è garantita appieno e i salari delle maestranze equi». La responsabilità sociale in azienda è anche questo.

Tutte casa e rimagliatrice

Se il sorriso fosse un parametro della qualità del clima di lavoro, quello che si allarga sui volti di Nunzia, Monica e Daniela la dice lunga sulla gioia di essere parte di questa avventura. Pur essendo di generazioni diverse tutte hanno legato la loro esistenza a stoffe e filati. Nunzia è la decana. Non stacca gli occhi dalla ‘sua’ rimagliatrice: quei gesti sapienti li conosce da quando aveva 16 anni; una vita intera. «Ce l’ho nel cuore – ci confessa –. Si vede che era il mio destino. Questo, d’altra parte, è un bel lavoro: peccato si vada perdendo». Anche Monica è legata a doppio filo alla maglieria: oltreconfine aveva un suo laboratorio. «Oggi da noi –in Italia, ndr – agli artigiani non danno modo di stare in piedi». Così non le è sembrato vero quando, chiusa una porta, le si è aperto il portone del maglificio di Arzo. Fra imbastitrici, taglia e cuci, doppia aghi e rimagliatrice resiste l’opportunità di coltivare una sapienza antica. «Ciascuna di noi – ci fa notare – sente di dare il proprio apporto». E la cura dei dettagli è quasi una religione; tanto da confrontarsi sul punto migliore dove cucire l’etichetta di un capo. In fondo, sono le piccole cose che fanno la differenza. Un’attitudine che ha affascinato Daniela, la più giovane del terzetto. Disegnatrice e stilista di moda, per 17 anni, ci racconta, ha lavorato in sartoria e per grandi griffe. «Poi ho avuto una parentesi nell’orologeria. Due anni orsono, però, la mia capa – Marie-Jeanne, ndr –mi ha cercata e ho scoperto un mondo di creatività. Le mie maestre? Sono state le mie colleghe».

Tanta dedizione, in ogni caso, viene premiata. In questi anni il marchio Filodarzo ha saputo ritagliarsi la sua nicchia in un mondo a tratti spietato; e la chiave di volta è stata internet. «È lì che vendiamo la maggior parte della nostra produzione – ci conferma la titolare –, e ci facciamo conoscere». Avete trovato la formula per coniugare tradizione a innovazione. «E speriamo di riuscire a raggiungere pure mercati lontani, come gli Stati Uniti». Al momento il punto di forza resta la Svizzera, come le boutique di città quali Zurigo, Lucerna o Winterthur. Chi sceglie il marchio di Arzo? «Chi ha voglia di avere un capo di alta qualità che dura anni: e per questo non è necessario essere facoltosi».

Se poi ci si aggiunge che, proprio grazie al web, si possono personalizzare maglioni e abiti, il successo è servito; e tutto ‘made in Mendrisiotto’.

 

 

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