Mendrisiotto

Lo scultore e gli alunni

Paolo Bellini incontra i bambini dalla seconda alla quinta elementare di Chiasso

8 aprile 2019
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L’aria di Chiasso per Paolo Bellini è un po’ aria di famiglia. Lo scultore di Mendrisio ha iniziato proprio nella cittadina di confine il suo percorso creativo: qui (in via Soldini) ha avuto il suo atelier sino al 2009, qui ha allestito le sue prime mostre (collettiva nel 1966 e personale nel 1968 alla Mosaico). Ritrovarsi allo Spazio Officina attorniato dalle sue opere (42 quelle esposte) e dai bambini delle scuole elementari, quindi, ha il sapore di un ritorno a casa. La curiosità degli alunni (dalla seconda alla quinta) lo stringe d’assedio, ma l’artista cede volentieri alle domande, acute, dei piccoli visitatori. E alla fine la fusione è perfetta, come nel metallo lavorato dalla mano dello scultore. La spontaneità e l’audacia degli allievi possono spiazzare, al pari, però, dell’umiltà di Bellini; che si concede senza riserve. Del resto, l’incontro con le scolaresche era pianificato – ne seguirà un secondo mercoledì 17 aprile, vedi a lato –, il risultato no.

Messi a tu per tu con l’opera ‘sinestetica’ di Bellini, a prima vista per gli alunni poteva rivelarsi un’impresa. Invece, ricevuti dei fogli in rame non si sono scoraggiati e hanno provato a creare le loro ‘sculture lillipuziane’. Ma è al momento delle domande che, dai più piccoli (i più numerosi ad alzare la mano) ai più grandicelli, danno il meglio. Vogliono sapere: del suo lavoro in atelier ma anche della sua vita. «Come trascorro il mio tempo? La mattina scolpisco, il pomeriggio vado nei boschi», risponde con generosità Bellini, a dargli sostegno la direttrice degli spazi espositivi Nicoletta Ossanna Cavadini. «Ma qual è la scultura più bella che hai fatto?», si leva una voce dal gruppo. «Non l’ho ancora realizzata», annuncia lo scultore nello stupore generale.

I piccoli visitatori, riflesso della società multicolore chiassese, ormai hanno rotto il ghiaccio e vanno a ruota libera. Eppoi i bambini, per qualche ora in libera uscita dai doveri scolastici, non si capacitano della scelta del materiale metallico usato – «ma perché non utilizzi il legno»? – o del perché Bellini non scolpisca figure o paesaggi. «Ci hai mai provato»? «Per un periodo sì – conferma facendo contento chi lo interroga con insistenza –. Ho realizzato una maternità e una famiglia». Erano gli anni Ottanta. «Io sento il bisogno di sperimentare – cerca di spiegare Bellini –: ecco perché utilizzo il metallo. Un tronco o la pietra sono cose della natura e già così belle che è inutile toccarle». Quella stessa natura che non manca di ispirare l’artista.

Maestri, colleghi e calciatori

«Hai mai guardato gli altri scultori?», si spingono ancora a chiedere dalla platea. «Certo, sia i maestri che i moderni. Penso, da un lato, a Michelangelo, al suo ‘Mosè’ e alla ‘Pietà Rondanini’, una delle opere più moderne che ci siano, dall’altro, fra i contemporanei, a Robert Müller». «Chi, il calciatore?», se ne esce un alunno. E la risata è generale. Non smorza, però, la fame di conoscere: «Quante sculture inizi in un giorno?»; «e quando non ti piace la distruggi?; «e ci pensi anche di notte»? Una cosa è certa, fa capire Bellini, non si accontenta mai del suo lavoro: «Mi piace rinnovarmi. D’altro canto – suggerisce ai suoi giovanissimi interlocutori –, ciò che conta è metterci passione, qualsiasi lavoro sia».

Poi si va sul personale

E lui, Paolo Bellini, da piccolo voleva proprio fare lo scultore?, chiedono con tante aspettative. «Prima di andare in fonderia – racconta – ho ultimato le scuole maggiori (allora si chiamavano così) e ho frequentato un anno di orientamento professionale. Poi ho avuto l’opportunità di fare uno stage presso uno studio di architettura e lì ho compreso che disegnavo bene, ma riga e squadra non facevano per me». A questo punto ci scappa la domanda delle domande: «Tua mamma era d’accordo con la tua scelta di fare lo scultore»? Si capisce bene che la richiesta è... interessata. «Mia mamma? Sì, era contenta Mio padre un po’ meno. Però si è affrettato a dirmi che, nel caso, un piatto di minestra ci sarebbe sempre stato per me a casa».

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