Mendrisiotto

Storia di Amauel, ragazzo della stazione di Como

Nell'estate 2016 era fra i migranti accampati a San Giovanni. Oggi ha il permesso di stare in Italia, ma non ha trovato l'Europa che sognava

23 gennaio 2019
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Amauel ha due profondi occhi neri che sembrano dirti: “Dammi una mano”. E ti spiazzano. Amauel coi suoi 20 anni ha un sorriso triste. Asmara, la sua città in Eritrea, non la vede ormai da quasi 5 anni. Da quando l’ha lasciata, adolescente, per rincorrere il sogno di sbarcare in Europa. E qui, sul vecchio Continente, in effetti ci è arrivato, via mare, come è successo ad altri migliaia. Ma la terra che prometteva una vita diversa si è rivelata più amara del previsto. Lui, però, la speranza di affrancarsi da una quotidianità precaria la custodisce sempre nel suo cuore. Del resto, nella sua pur breve esistenza ne ha viste già troppe per scoraggiarsi. Eppoi sul suo cammino, a cavallo del confine (proprio in Ticino), ha trovato tanti amici, come Lisa Bosia Mirra o altri giovani come lui, o la comunità valdese. Capita che la solidarietà non resti solo una parola vuota. La memoria corre, però, subito alla calda estate del 2016 e alle decine e decine di uomini, donne, ragazzi e bambini accampati nei giardini della stazione di Como. Tra quelle persone che premevano al confine, simbolo di un flusso migratorio che aveva tanto allarmato i governi, c’era anche lui. Lì, in quel limbo fra sud e nord, come altri aveva aspettato il momento di passare la frontiera e di raggiungere la Germania e una sorella, destinazione finale (allora) di un lungo peregrinare. Di giardini pubblici, unico luogo dove dormire, però, Amauel ne avrebbe conosciuti ancora.

Un sogno chiamato Europa

Ci sei mai arrivato, poi, in Germania?, gli chiediamo. «Sì, ma non ci sono potuto restare, non a lavorare. Non con il mio permesso», ci spiega in un italiano ancora stentato ma sufficiente a farsi capire («un po’ in questi anni ho cercato di impararlo», ci dice).Tant’è che è stato rispedito dalle autorità a Roma. Un passo avanti, rispetto ai tempi di Como – dove è rimasto circa un mese – Amauel, comunque, l’ha fatto: oggi ha un documento che gli restituisce una identità e un permesso di soggiorno che lo riconosce come richiedente asilo. Ce li mostra: quelle due tessere non gli hanno consegnato solo il diritto di stare in Italia (e quindi in Europa), rappresentano il suo lasciapassare per il futuro. Li rimette con cura nel suo portafoglio, con il cellulare è uno degli oggetti più preziosi che possiede, perché custodisce tutti i suoi beni. Adesso, mi fa capire, può lavorare; certo a trovarlo un posto di lavoro. È questo, al momento, il cruccio di Amauel. Infatti, sa che su di lui la sua famiglia ha puntato tutto, vendendo quel poco che aveva per permettergli di affrontare il viaggio. Mandare un figlio al di là del Mediterraneo è una sorta di investimento con cui garantirsi una via d’uscita da una quotidianità di stenti. Lui, però, ancora, non ci è riuscito a cambiare la vita dei suoi famigliari: padre (incarcerato per anni dal governo), madre e fratelli. Ecco perché, a volte, i «brutti pensieri» si impossessano di lui. «Allora vado in una chiesa e lì ritrovo un po’ di pace». Così, ci racconta, riesce a tenere dritta la barra della sua vita. È consapevole che cedere alle lusinghe di certa gente è pericoloso. «Se no arriva la Polizia – fa il segno delle manette –; e per me sarebbe la fine». Qualche tentazione c’è stata, lo ammette. «Sinora non sono stato fortunato», ripete. L’unica sua ‘colpa’ sin qui è stata quella di dire qualche bugia. Come quando, fatto tappa in Belgio, ha tentato di arrivare in Irlanda. «Ho comprato il biglietto, sola andata; mi sono tagliato la barba e ho messo dei bei vestiti per dare l’aria di un turista. E un bollo sul passaporto l’ho ottenuto. Andandomene ho fatto il segno della croce e una poliziotta, sospettosa, mi ha visto». Come è finita? «Mi hanno perquisito lo zaino e quando hanno visto che non avevo abbastanza soldi per fare il turista, mi hanno fermato e rispedito indietro, in Belgio». Amauel non si capacita, in fondo vuole solo un lavoro, quanto serve per l’affitto di un locale e per mandare qualche soldo a casa. Invece, ha trovato solo occupazioni saltuarie o persone che si sono approfittate della sua buona fede. Come è successo in una fattoria in Piemonte, dove ha lavorato andando avanti un mese a latte e formaggio e senza prendere un centesimo. Ora confida nei 150 curricula che ha distribuito qua e là a Milano, Torino. «Spero che qualcuno risponda», sospira sgranando grandi occhi difficili da scordare.

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