Luganese

Quando in gioco c'è la vita

In questa intervista, Vittore De Carli racconta l’esperienza della grave malattia, del coma e del risveglio: ‘Mi sono sentito un migrante’.

6 aprile 2019
|

Nell’esperienza della grave malattia ‘mi sono sentito un migrante’ ci racconta, ‘solo e con una sola voce comprensibile, quella della mia coscienza, che mi si è presentata nella veste di un severissimo procuratore pubblico’. E al risveglio la consapevolezza ‘di dover fare i conti con il mio essere profondo, con la mia esistenza, con la mia nuova vita!’.

Sessantun anni, comasco ma legato per affetto da sempre a Campione d’Italia dove vive e ha lavorato, prima quale direttore di Radio International, poi responsabile della comunicazione del casinò dell’enclave. Giornalista, è autore del libro ‘Dal buio alla luce’, l’autobiografia introspettiva (pubblicata da Lev Libreria Editrice Vaticana) che ha scritto dopo la sua esperienza di coma durato 47 giorni.

Andiamo subito a quel giorno, quando la sua vita si è fermata e ha fatto ‘esperienza,’ come lei stesso scrive, di un mondo incomprensibile. Quale lettura ha dato il De Carli giornalista di quei 47 giorni di coma?

Posso dire che è stata l’esperienza più difficile di tutta la mia vita, anche perché ci ho messo un bel po’ a capire dov’ero e cosa mi stava capitando. Come scrivo nel libro da allora faccio fatica a guardare in tv i servizi su quei poveri ragazzi che fuggono dall’Africa per cercare un po’ di fortuna in Italia o in Europa perché mi sono sentito uno di loro. Avevo dolore dappertutto, una sete feroce e soprattutto non riuscivo a capacitarmi del luogo in cui ero. Per lavoro mi è capitato spesso di viaggiare, ma quel che ho visto lì è indescrivibile. Malgrado fossi circondato da altri sventurati come me non riuscivo a parlare con nessuno, ognuno si esprimeva con una lingua che era solo sua, inframmezzata da pianti e lamenti. Mi sono sentito solo e sotto accusa, l’unica voce che mi parlava in una lingua finalmente comprensibile era quella della mia coscienza che però si è presentata nella veste di un procuratore pubblico severissimo. Al mio risveglio, mi sono reso conto che la malattia mi aveva costretto in qualche modo a fare i conti con il mio essere profondo, con la mia anima, chiamatela come preferite, dalla quale la vita di tutti i giorni con i suoi mille alibi e i compromessi mi aveva allontanato.

Qual è stato il suo primo pensiero nel momento del ritorno ‘dal buio alla luce’?

Anche se può sembrare incredibile all’inizio non l’ho vissuto come una liberazione. È stato piuttosto come rinascere una seconda volta... Come vi sarà capitato di vedere, i bambini di solito strillano appena venuti al mondo. Nel mio caso il risveglio è coinciso con la piena consapevolezza di possedere un corpo che era rimasto immobile per 47 giorni, con tutte le conseguenze del caso. Malgrado le cure dei medici, delle infermiere e di mia moglie Lucia, che tutte le sere faceva anche duecento chilometri per accudirmi, ero ridotto davvero male. Durante il periodo di coma il peso del mio corpo si è quasi dimezzato, ho subìto un intervento chirurgico durato dodici ore nel corso del quale mi hanno installato cinque bypass e fatto una plastica alla valvola mitrale, in più l’immobilità forzata aveva atrofizzato tutti i miei muscoli, non avevo più i calcagni e dopo la tracheotomia anche parlare con un fil di voce era difficile. Mi sentivo come il primo uomo sulla Luna, anche perché l’apparecchiatura del mio letto di terapia intensiva pieno di sonde e monitor non era poi troppo diversa da quella navicella. Potevo esprimermi solo con gli occhi, che però vedevano male, ricordo che all’inizio ho faticato anche a capire di essere in un ospedale, vedevo tante persone che si davano da fare attorno a me indossando camici verdi e pensavo di essere alla Migros.

L’esperienza di una malattia, come ci testimoniano coloro che l’hanno provata, porta a un cambiamento di priorità ed equilibri nella propria vita. Lo è anche per lei?

Non si può vivere un’esperienza del genere e rimanere gli stessi. Anzitutto perché con il tempo, durante il lento processo di guarigione, ci si rende comunque conto di essere dei privilegiati perché in qualche modo si è riusciti a tornare alla vita, a sopravvivere. Poi perché in realtà non si torna a essere completamente sé stessi. Questo tipo di malattie, il coma, ha un forte fattore invalidante. La vita che si è vissuta prima non torna più, ci si deve rieducare completamente, nel mio caso anche per tornare a compiere gesti semplici come camminare, afferrare una penna o portare un bicchiere alla bocca. Ricordo la fatica che ho fatto per tornare a stare in piedi e potermi muovere senza usare la carrozzina. Facevo gli esercizi ogni giorno, ma all’inizio ero senza muscoli e le mie gambe non riuscivano a sostenere il peso del mio corpo. Poi, lentamente, grazie alla fisioterapia ho iniziato a fare progressi e la prima volta che ho avuto la consapevolezza di riuscire ad alzarmi da solo e muovere di nuovo un passo mi sentivo felice come un bambino. Ricordo che ho voluto fare una sorpresa a mia moglie, a mia sorella e ad Alessandra e Andrea, due colleghi che non mi hanno mai abbandonato, e che mi venivano a trovare la sera. Mi sono fatto spingere da loro in carrozzina fino al refettorio dell’ospedale e poi, mentre loro erano seduti al tavolo, senza dire niente mi sono alzato in piedi. È stata un’emozione incredibile e ci siamo ritrovati tutti e cinque a piangere. Oggi grazie all’aiuto della medicina ho una vita quasi normale, ma non sono più quello di prima. Oltre alle pastiglie che devo prendere tutti i giorni, la fisioterapia e le cure alle quali mi devo sottoporre, ci sono comunque cose che non posso e non potrò più fare. Ad esempio, battere con dieci dita sulla tastiera di un computer come facevo un tempo, oggi ne posso usare al massimo due. Per un giornalista questo può essere un limite.

Quanto sono importanti la vicinanza e l’affetto di una famiglia in momenti come questi particolarmente delicati?

Come ho scritto la malattia si affronta in due: il malato e la sua famiglia. L’affetto, la vicinanza, l’empatia e l’amore sono elementi fondamentali nella vita in generale e in questi momenti in maniera particolare. Mi spingo a dire che anche le cure sono più efficaci se sono accompagnate da un po’ di amore e compassione. Purtroppo il mondo della malattia è un universo complesso che si può cercare di comprendere solo vivendolo dall’interno. Da anni sono iscritto all’Unitalsi e ho accompagnato tanti malati a Lourdes, Fatima e Loreto, ma solo quando in carrozzina ci sono finito io ho capito veramente le loro difficoltà e la necessità che hanno di sentire una persona cara vicina. I familiari da questo punto di vista possono fare tantissimo, come gli amici. I momenti più belli, al risveglio dal coma, sono stati le visite, i sorrisi e le parole di persone che mi volevano bene, che mi hanno aiutato a mettere da parte il dolore e ritrovare la voglia di vivere. Per questo dico a tutti che non occorre attendere di essere malati per capire che i rapporti umani e non i beni materiali sono ciò che più conta nella vita.

Da giornalisti siamo molte volte portati a raccontare fatti con obiettività e distacco, cosa ha provato diversamente a scrivere questo libro in prima persona?

È stato molto difficile e le confesso che all’inizio non volevo neppure farlo. Da giornalista ho raccontato le storie degli altri, ma qui c’era in ballo la mia. Come capita a chi vive un trauma ho provato anche a rimuoverlo, ma non ci sono riuscito, il ricordo del coma continuava a essere chiarissimo dentro di me, sentivo che quell’esperienza vissuta con tanta intensità meritava di essere raccontata, ma come una testimonianza di speranza. In questo la fede mi ha aiutato molto, ho pensato che se Dio ha voluto che tornassi qui ancora per un po’ era per un motivo e dovevo mettere a frutto quel regalo che mi aveva fatto. Così anche grazie all’aiuto di alcuni amici che mi sono stati vicini ho iniziato a organizzare i miei ricordi in appunti, cercando di mantenere un tono lieve, anche sarcastico in alcuni passaggi, perché in fondo l’esperienza della malattia mi ha insegnato ad apprezzare meglio la vita. Di sicuro dentro queste pagine c’è molto di me, anzi direi che mi sono proprio messo a nudo. Probabilmente il ‘vecchio’ Vittore De Carli non l’avrebbe mai fatto, impegnato in mille cose e geloso della sua privacy, ma quello uscito dal coma ha pensato di dover prestare la sua voce e la sua testimonianza a tutti i malati.

Crede che il giornalismo, in un mondo caratterizzato anche da fake news e pruriginosa cronaca nera, debba dare maggiore spazio alle buone notizie?

Da giornalista ho sempre pensato che esistono solo le notizie scritte bene e siccome il mondo è tanto grande e succedono tante cose basta usare gli occhi e le gambe senza dover ricorrere alla fantasia o alle bugie che, come diceva la mia mamma, hanno le gambe corte. Penso che le persone abbiano bisogno di verità e siano in grado di riconoscerla, per questo il giornalista deve imparare a mettersi un po’ meno sotto i riflettori, incensare il proprio io, per mettere al centro del suo lavoro le persone, le loro vite e le loro storie. La cronaca nera fa parte della vita e spesso ci colpisce nella sua immediatezza, altre notizie sono più sfumate, difficili da comprendere, ma la bravura di un giornalista è saper utilizzare gli strumenti di cui dispone, le parole o le immagini, per raccontarle al meglio. Le buone notizie sicuramente appartengono a questa seconda categoria, una volta era difficile trovarle sui giornali, ma negli ultimi anni per fortuna la sensibilità è cambiata. Oggi tutti hanno in tasca un telefonino con cui si può scrivere, scattare una foto, registrare o girare un video ma a fare la differenza, specie nel lavoro del giornalista, sono ancora la curiosità con cui si scopre una storia, l’empatia nell’incontrare una persona e il rispetto che si deve al proprio lettore e a ciò che diventa soggetto della nostra narrazione. Imparare a mettere il cuore nelle cose che facciamo insomma.

Nella sua veste di presidente dell’Unitalsi, ha conosciuto molto bene Fabrizio Frizzi, il famoso presentatore italiano recentemente scomparso e da sempre vicino alla vostra associazione. Quanto aiuta la presenza di un vip nella condivisione della sofferenza e nel sostegno di progetti a favore di quanti sono diversamente abili e malati?

Fabrizio era una persona straordinaria e vi posso garantire che la sua forza era di rimanere sempre lo stesso, indipendentemente dal fatto che la luce della telecamera fosse accesa o spenta. Nella sua vita si è dedicato a moltissime attività di volontariato, sempre in silenzio perché, pur essendo un grande professionista del mondo dello spettacolo, non ha mai voluto mettere al centro la sua persona. Il “Progetto dei piccoli” è nato dall’attenzione ai bisogni delle famiglie incontrate nei pellegrinaggi e nelle attività quotidiane organizzate dall’Unitalsi sui territori. Una associazione come la nostra non poteva non reagire alla vista delle famiglie che passavano le notti in macchina mentre il loro bambino veniva sottoposto alle cure in ospedale. Così nel 2002 abbiamo preso in affitto tre appartamenti a Roma per offrire accoglienza gratuita a quelle famiglie che devono ricoverare i loro bambini in strutture ospedaliere specializzate al di fuori del luogo di residenza. Attualmente ci sono nove case di accoglienza distribuite tra Roma, Padova, Genova, Perugia e Latina. I proventi del mio libro saranno devoluti all’apertura di una di queste case a Milano intitolata a Fabrizio, abbiamo chiesto il permesso alla moglie che è stata molto felice di collaborare con noi.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE