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Disponibile in Svizzera l’anticorpo sviluppato a Bellinzona

Filippo Riva di Humabs: uno strumento in più, ma non diventi una scusa per non vaccinarsi

Anticorpi sviluppati a Bellinzona partendo da un paziente della prima Sars (Foto Ti-Press)

Filippo Riva di Humabs: uno strumento in più, ma non diventi una scusa per non vaccinarsi

1 ottobre 2021
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Filippo Riva ci accoglie nella sede della Humabs BioMed a Bellinzona con un modellino: ci mostra un pezzo della proteina Spike del coronavirus, quella specie di “punta” che il virus utilizza per entrare nelle cellule umane, ingrandito qualche decina di milioni di volte, al quale è agganciato l’anticorpo monoclonale Vir-7831 che l’azienda di Bellinzona è riuscita a sviluppare in collaborazione con la sua casa madre Vir Biotechnology. Il direttore generale di Humabs ci mostra come l’anticorpo con la sua forma a ‘Y’ si attacca in determinate zone della proteina Spike con un duplice effetto: «Innanzitutto impedisce al virus di entrare nelle cellule e quindi di moltiplicarsi; inoltre può reclutare cellule effettrici del sistema immunitario in grado di “fare pulizia” all’interno dell’organismo”. Gli anticorpi sono prodotti dal sistema immunitario in risposta ad una infezione o ad un vaccino e possono essere prodotti artificialmente e somministrati ai pazienti per aiutarli, in determinate situazioni, a guarire. Vir-7831, distribuito in collaborazione con l’inglese GlaxoSmithKline (Gsk) con il nome di Sotrovimab, è stato già autorizzato e impiegato in diversi Paesi; Swissmedic deve ancora omologare il farmaco, ma la Confederazione ha recentemente autorizzato l’utilizzo sia del Sotrovimab (lo scorso luglio sono state riservate tremila dosi) sia della combinazione di anticorpi «Casirivimab/Imdevimab» di Regeneron, disponibili quindi in tutta la Svizzera Ticino incluso. Una risorsa in più contro la pandemia, insieme a vaccini, test, mascherine eccetera.

«È interessante che a oggi l’unico prodotto terapeutico autorizzato per il Covid scoperto in Svizzera, nella nazione delle case farmaceutiche, sia il nostro – scoperto in Ticino, a Bellinzona!» dice con comprensibile orgoglio Riva. Un successo che non arriva per caso: le malattie infettive non interessano molto alle case farmaceutiche che, negli anni precedenti la pandemia, si sono via via ritirate, concentrandosi sulla cura di malattie più redditizie. Tra le eccezioni, la statunitense Vir Biotecnology, fondata nel 2016 con l’obbiettivo di sviluppare cure contro le malattie infettive, che nel 2017 ha acquistato la bellinzonese Humabs, azienda co-fondata dall’ex direttore dell’IRB Antonio Lanzavecchia proprio per sviluppare la tecnologia degli anticorpi monoclonali. Una ricerca iniziata proprio con la prima SARS, proseguita poi facendo ricerca su molte altre patologie infettive come Ebola, contribuendo alla realizzazione di una terapia approvata dall’FDA, e adesso, appunto, con SARS-CoV-2, il virus del Covid-19. Per arrivare a ottenere degli anticorpi monoclonali si parte dai soggetti guariti, identificando quelli che hanno avuto la miglior risposta immunitaria; da lì si selezionano gli anticorpi con le migliori caratteristiche e una volta trovati, si procede con l’ingegnerizzazione, la produzione e lo sviluppo clinico. Il lavoro sul sangue di pazienti guariti dal Covid è iniziato già a febbraio del 2020; Vir-7831 è stato tuttavia cercato in un campione di sangue di pazienti che erano guariti dalla prima SARS, aspetto importante per quanto riguarda la resistenza alle varianti, come si dirà.

Filippo Riva, uno dei punti di forza degli anticorpi monoclonali sono i tempi di sviluppo, ridotti rispetto a quelli dei vaccini. Eppure, lo abbiamo visto in questa pandemia, non c’è stata molta differenza tra i due prodotti.

La velocità di sviluppo di un agente terapeutico è di norma maggiore a quello di un medicinale per la profilassi come un vaccino. Abbiamo però visto che, in particolare con le nuove tecnologie a mRNA, anche i vaccini hanno accelerato molto i tempi di sviluppo. Non ce l’aspettavamo neanche noi, una simile efficacia e rapidità.

Ad inizio 2020 siamo ritrovati davanti a un incendio senza sapere quanto sarebbe diventato grande e ci siamo detti che probabilmente saremmo riusciti a essere tra i primi a poter mettere a disposizione dei pazienti un agente terapeutico efficace. Poi come anticorpi non siamo stati i primi ma i terzi al mondo a ottenere l’autorizzazione per l’uso emergenziale dalla statunitense Fda.

Quali i possibili impieghi degli anticorpi monoclonali?

In generale gli anticorpi possono essere impiegati in vari modi. Il primo è la profilassi, cioè da dare alle persone a rischio prima che si contagino e sviluppino la malattia, e questo anche nei soggetti vaccinati, come “rinforzo” ad esempio per gli ospiti di una casa anziani o per le persone immunocompromesse.

Abbiamo poi l’impiego come terapia precoce, quando un paziente a rischio – o non a rischio, di nuovo dipende dalle autorizzazioni – inizia a sviluppare la malattia e ha sintomi da leggeri a medi. Parliamo di pazienti non ancora ospedalizzati. Infine abbiamo l’utilizzo come terapia, cioè in pazienti ospedalizzati.

Attualmente gli anticorpi monoclonali utilizzati per combattere Covid-19 sono stati autorizzati principalmente per l’utilizzo nella fase precoce della malattia in soggetti ad alto rischio di ospedalizzazione. Con questo tipo di impiego gli studi, e la pratica, hanno mostrato un’ottima efficacia.

Nel nostro caso VIR-7831 è autorizzato per la cura di adulti e adolescenti (con più di 12 anni e 40 chili di peso) che sono in una fase iniziale della malattia e ad alto rischio di una progressione verso una forma grave della stessa.

Gli anticorpi monoclonali non sono un’alternativa ai vaccini ma rappresentano uno strumento importante nel ridurre ospedalizzazioni e decessi. Se sei un soggetto a rischio – vaccinato o no – e sei positivo, contatti subito il tuo medico e, dopo aver ricevuto l’infusione, la probabilità di un decorso grave della malattia si riduce in modo importante.

L’impiego, anche come terapia precoce, richiedono comunque un sistema sanitario efficiente nell’identificare i soggetti a rischio positivi e assisterli. Questo non può essere un problema nelle fasi acute della pandemia?

Ora abbiamo ampio accesso a diagnosi precoci, anche domiciliari, che permettono ai medici di individuare i soggetti positivi a rischio e indirizzarli rapidamente alla terapia più opportuna.

Inoltre sono in corso degli studi sui monoclonali per passare dall’infusione endovenosa alla somministrazione intramuscolare o sottocutanea che renderanno più semplice e accessibile la somministrazione della terapia.

Quello che secondo me è importante è che adesso anche in Svizzera abbiamo una terapia che può aiutare in maniera molto importante nel ridurre la pressione sul sistema sanitario. Chiaramente non deve essere un motivo per non vaccinarsi, cosa che purtroppo alcuni hanno sostenuto: gli anticorpi monoclonali non sono un’alternativa ma uno strumento in più.

Credo che questo sia un punto importante: il discorso “adesso c’è una cura, non mi vaccino” (o “non metto la mascherina”, “non mantengo le distanze”) ha una certa diffusione.

È comunque un rischio: gli anticorpi monoclonali sono autorizzati solo per i pazienti a rischio di un decorso grave ed hanno una finestra terapeutica ristretta, ovvero per essere efficaci devono essere somministrati entro 10-12 giorni dall’infezione.

Quali sono i costi rispetto a quelli del vaccino?

La parte commerciale è gestita da Gsk, per cui posso fare un discorso generale. Non stiamo parlando di una profilassi, che viene somministrata a tante persone sane a protezione di una possibile malattia futura, ma di una terapia che invece viene data a persone malate ad alto rischio di un decorso grave: la terapia è sempre stata più cara della profilassi, e nel caso degli anticorpi monoclonali parliamo di una tecnologia complessa e quindi più costosa dei vaccini, anche di quelli di ultima generazione. Negli Stati Uniti si parla di circa 2000 dollari a dose ma il confronto non è da fare con i costi del vaccino, ma con quelli di una persona che finisce ricoverata in ospedale, magari in cure intense. E sono molti di più di 2000 dollari.

Ci sono controindicazioni per gli anticorpi monoclonali?

Si tratta di terapie altamente specifiche, generalmente ben tollerate.

Un impiego diffuso di questi anticorpi potrebbe portare alla selezione di varianti in qualche maniera resistenti?

La prima cosa da dire è che le mutazioni avvengono in maniera casuale, non c’è una “risposta intelligente” del virus al vaccino, agli anticorpi o ad altri farmaci. Il virus muta in maniera casuale, proporzionalmente alla diffusione nella popolazione – anche per questo è importante avere una copertura vaccinale alta che riduca la circolazione e quindi lo sviluppo di varianti – poi queste mutazioni sono selezionate dall’ambiente. Una campagna vaccinale incompleta, lasciando appunto circolare molto il virus, potrebbe favorire la diffusione di varianti resistenti, ma che questo accada con gli anticorpi monoclonali è altamente improbabile: stiamo parlando di un farmaco che viene usato con pazienti a rischio quando sono già contagiati, cioè quando dovrebbero stare in isolamento. L’anticorpo riesce inoltre a fare “pulizia” del virus rapidamente, lasciando poco tempo per le mutazioni.

C’è comunque il rischio che una nuova variante riduca l’efficacia del vostro anticorpo monoclonale, come accaduto con quelli di Lilly.

Finora il nostro anticorpo ha mantenuto una buona efficacia con tutte le varianti.

Che cosa significa?

Il nostro anticorpo è studiato per attaccare una regione particolarmente conservata della proteina Spike del virus e se il virus muta in quella regione presumiamo che perda qualche caratteristica utile alla sua efficacia nella diffusione, e viene quindi soppiantato dalle altre varianti. La nostra strategia è stata appunto da subito quella di identificare un anticorpo che lega una regione che questo nuovo virus condivide con la prima SARS, quella del 2003: se quella regione si è conservata tra due virus “diversi”, vuol dire che è molto difficile che muti. Altre terapie anticorpali si basano un cocktail di due anticorpi per garantire l’efficacia in caso di mutazioni.