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L’estetica della condivisione di Hans Berger

Il Museo delle culture di Lugano dedica una retrospettiva al fotografo tedesco: un viaggio poetico nell’intimità

‘Consapevolezza’, Zuccale, Isola d'Elba 1984 (© 2021 Hans Georg Berger)

Il Museo delle culture di Lugano dedica una retrospettiva al fotografo tedesco: un viaggio poetico nell’intimità

14 maggio 2021
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Le fotografie di Hans Georg Berger sono immagini di incredibile bellezza, ma a colpire lo spettatore non è solo la raffinata estetica: c’è una singolare qualità narrativa, la capacità di condensare discorsi ed emozioni che a parole sarebbe lungo e difficile esprimere. Il Museo delle culture di Lugano dedica al fotografo tedesco – è nato a Treviri nel 1951 – la prima retrospettiva, con 145 fotografie, tutte in bianco e nero, selezionate dal suo immenso archivio personale a Berlino che conta oltre trentamila negativi.

L’esposizione “La disciplina dei sensi” – a Villa Malpensata fino al 16 gennaio 2022 – si inserisce all’interno del ciclo Esovisioni che da tempo il museo dedica alla fotografia dell’esotismo, a come l’Altro viene visto e rappresentato. Ma, ci spiega il direttore del museo Francesco Paolo Campione durante una visita della mostra, l’etichetta è solo parzialmente adatta. Non che Berger non abbia viaggiato e fotografato, anzi: in mostra abbiamo una bella selezione di immagini del Laos, della Thailandia e dell’Iran, oltre che alcune immagini del Giappone e dell’Egitto. E al filone dell’esotismo possiamo a buon diritto includere anche le fotografie realizzate, negli anni Ottanta, agli abitanti del paesino di Rio nell’Elba.

Il fatto è che nelle immagini di Berger tutto il discorso sullo sguardo dell’Altro, con la conseguente riflessione sull’incontro, l’autenticità e l’inautenticità, perde d’importanza e diventa, se non trascurabile, secondario. La distanza e la differenza rimangono, ma si cerca uno sguardo condiviso.

Questo grazie non solo alla sensibilità di Berger – non è certo l’unico fotografo a cercare una relazione “alla pari” –, ma anche per le sue modalità di lavoro: la fotografia, spiega sempre Campione, è il risultato di un lavoro di condivisione con le persone ritratte. Un processo di avvicinamento, di conoscenza dell’altro, un dialogo. «E una volta fatta la fotografia, Berger gliel’ha fatta vedere e soltanto nel momento in cui la persona si è riconosciuta in quella fotografia, l’ha validata».

L’Iran in questo è un caso interessante, tenendo presente il particolare rapporto che la cultura islamica ha con le immagini. In mostra troviamo alcune fotografie del santuario di Qom lontane dai toni celebrativi dei reportage ai quali si è abituati, ma è soprattutto nei ritratti di studenti e studentesse delle madrasse che si vede questo lavoro di condivisione. «Berger – spiega Campione – è stato nominato dal governo iraniano all’interno di una commissione internazionale che deve decidere cosa fare dei grandi archivi fotografici della Persia: fuori dall’Europa, è qui che la fotografia ha grande sviluppo, qui si trova uno dei più grandi archivi di fotografie dell’Ottocento al mondo. È un tema che Berger ha saputo sviluppare per far capire che l’immagine non toglie nulla, non desacralizza ma racconta la conoscenza: lui non ha fotografato le persone ma il sapere».

La fotografia come cura

Per comprendere l’origine di questa particolare attenzione, occorre fare un passo indietro e tornare al già citato paesino di Rio nell’Elba. È lì che Berger – «un uomo che ha fatto della cultura la sua ragione di vita», spiega Campione, regista del gruppo Rote Rübe e, dal 1977 al 1983, direttore dell’Internationales Festival des Freien Theaters di Monaco e cofondatore della Münchener Biennale – decide di fare della fotografia il proprio linguaggio. «L’esperienza formativa di Berger è tutta inquadrata all’interno dell’eremo di Santa Caterina, un vecchio monastero francescano sperduto nell’isola d’Elba che lui trova in condizioni disastrose e che inizia a restaurare, facendone un centro di cultura internazionale che ospita personaggi del calibro di Michel Foucault e Roland Barthes». Lì Berger conosce lo scrittore francese Hervé Guibert: tra i due nasce una relazione d’amore che ha trovato manifestazione nelle fotografie che i due amanti si scambiavano, una sorta di “epistolario fotografico” del quale troviamo tracce lungo il percorso espositivo e un vero e proprio estratto in una delle ultime sale, con la proiezione di una cinquantina di immagini che Berger ha scattato all’amato.

«Berger, nato in Germania nel dopoguerra, ha patito fin da giovane la sua omosessualità: nella fotografia ha trovato un rifugio, è stato qualcosa che gli ha permesso di condividere con l’altro, di dialogare con l’altro. Questo particolare sistema di concepire la fotografia è nato nel rapporto con Guibert e poi Berger l’ha ampliato al monachesimo laotiano, ai racconti di viaggio, allo sciismo iraniano». E agli abitanti di Rio nell’Elba, dei quali abbiamo alcuni ritratti molto belli.

Luogo di sensualità

L’eremo di Santa Caterina è, come detto, un luogo di cultura e di ricerca. Ma anche di sensualità e il percorso espositivo si sofferma su questo aspetto con una sala emotivamente molto intensa. Sensualità maschile e omosessuale, con diversi nudi, ma catalogare queste immagini come semplice erotismo – o peggio pornografia – non sarebbe corretto. «È un inno all’amore omosessuale che abbiamo voluto mostrare: il contesto qui è quello di un amore profondo, dolce, un amore fatto di piccoli gesti, di condivisione quotidiana» spiega Campione.

Poco oltre troviamo un curioso omaggio di Berger a Guibert: una fotografia dell’autoritratto di Rembrandt con, nel riflesso del vetro, l’amato.

Un viaggio poetico

L’esposizione è frutto di un lavoro che il Museo delle culture ha iniziato nel 2016. Il lavoro di selezione, come detto da un archivio di trentamila negativi, innanzitutto. «Abbiamo diviso il lavoro in capitoli – spiega Campione – e per ogni capitolo abbiamo deciso di usare l’archeologia del sapere di Michel Foucault: non è una scelta che segue una “logica aristotelica” ma del precipitato: le cose hanno un valore, le cose hanno un senso, hanno una storia e raccontiamo le cose che hanno costruito l’universo di immagini e di pensiero di Berger. È un precipitato di cinquant’anni di fotografia».

Poi la stampa, condotta con metodi tradizionali – ai sali d’argento su carta baritata – e non al computer. Con anche l’imprevisto dello stampatore morto a metà del lavoro e la necessità di trovarne un altro. Le immagini sono poi state incorniciate e titolate: le didascalie, tutte concordate con Berger, sono infatti state realizzate sulla cornice dal calligrafo del museo, al quale si devono anche le scritte sui muri delle varie sale, testi poetici. Un allestimento molto interessante che valorizza in maniera intelligente le fotografie intime di Berger. A completare il tutto, nelle sale troviamo poi alcuni oggetti – turbanti, una barca rituale laotiana – e opere d’arte che richiamano i temi delle fotografie.

Imponente anche il lavoro per il catalogo che, oltre alle riproduzioni di tutte le immagini delle fotografie esposte, raccoglie trenta brevi contributi di artisti, intellettuali e scienziati che hanno condiviso il percorso artistico e personale di Berger.