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Pelé, ottant'anni di un mito tra storia e leggenda

Il mondo del pallone, ma non solo, celebra il compleanno del piccolo lustrascarpe che tirava pedate ai pompelmi, cresciuto fino a diventare dio del calcio

Il trionfo sull'Italia per 4-1 a Città del Messico: era il 21 giugno del 1970 (Keystone)

Il mondo del pallone, ma non solo, celebra il compleanno del piccolo lustrascarpe che tirava pedate ai pompelmi, cresciuto fino a diventare dio del calcio

23 ottobre 2020
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Se sei destinato a diventare un mito tanto vale nascere in un posto dal nome talmente bello e immaginifico da sembrare inventato. Per portarsi avanti col lavoro. 

Três Corações potrebbe essere una città uscita dalla penna del brasiliano Jorge Amado, uno scrittore che solo a leggere i titoli dei suoi libri senti odore di Sudamerica: “Cacao”, “Gabriella, garofano e cannella”, “Jubiabà" “Dona Flor e i suoi due mariti”. Ma Três Corações esiste davvero: lì, ottant’anni fa, il 23 ottobre 1940, nasceva un bambino dal nome lunghissimo, Edson Arantes do Nascimento, che sarà conosciuto in ogni angolo del pianeta con un nome cortissimo: Pelé.

L’unico calciatore della storia capace di vincere tre Coppe del Mondo (1958, 1962 e 1970). E ancora oggi il più giovane marcatore della storia dei Mondiali, ad appena 17 anni e 239 giorni, il più giovane autore di una tripletta, il più giovane a segnare in una finale, per di più una doppietta. Tutti record realizzati nel 1958 in Svezia, nel Mondiale che aveva promesso al padre di vincere per lui otto anni prima, nella tragica serata del Maracanazo. Suo padre, l’ex calciatore Dondinho, scoppiò in lacrime dopo l’inattesa sconfitta del Brasile, a Rio de Janeiro, contro l’Uruguay. I brasiliani giocavano in casa: bastava un pareggio, perché quella non era proprio una vera finale, ma l’ultima partita di un girone. Vincevano 1-0. Persero 2-1. Indossavano maglie bianche, i brasiliani: da quella sera non più. Quella vergogna nazionale portò a indire un concorso. Vinse la maglia disegnata da uno studente di 19 anni: era verde-oro come quella che Pelé indosserà per la prima volta il 7 luglio del 1957, contro l’Argentina, proprio al Maracanà, lo stadio del disastro. Il Brasile perse ancora 2-1. Ma, neanche a dirlo, Pelé esordisce con un gol diventando il più giovane marcatore della storia della nazionale brasiliana ad appena 16 anni e nove mesi. Un record tuttora imbattuto, come quello del maggior numero di gol segnati con la maglia verde-oro: 77 (in 92 presenze). Si è già capito, basta mettere il “calciatore più” o “il primo calciatore a” e poi aggiungere un record: la risposta sarà quasi sempre Pelé.

E dire che quel nomignolo, appiccicatogli addosso da bambino dai compagni di giochi, a lui non piaceva. In famiglia lo chiamavano Dico, lui invece va orgoglioso di Edson, che è la storpiatura di Edison, un omaggio all’inventore della lampadina. Pelé è invece la storpiatura di Bilé, una gloria locale che giocava in porta nella squadra di suo papà. Il piccolo Edson, che se la cavava anche tra i pali, si paragonava spesso a Bilé, pronunciando però male la prima lettera. Fu così che gli amici, per sfotterlo, iniziarono a chiamarlo prima Pilé e poi Pelé. A lui non andava giù a tal punto da arrivare a fare a botte. Ma il nome rimase e lui, evidentemente, ci sapeva fare più con i piedi che con i pugni. Quanto ci sia di vero in questa storia non è mai stato chiaro, proprio come quella del padre in lacrime dopo la sconfitta con l’Uruguay. Ma se la carriera di Pelé parla per lui, il resto - come per tutti i miti - è un atto di fede.

Nel racconto dell’infanzia del futuro tricampione del mondo non manca nulla che non possa essere estratto dal manuale perfetto del "menino de rùa” in cerca di riscatto: le monetine guadagnate come lustrascarpe, le partite di calcio giocate con un mango, un pompelmo o una palla fatta di carta e calzini.

Dopo qualche anno tra i ragazzi del Bauru, viene portato al Santos, dove rimarrà per diciannove stagioni. Nella gara d’esordio, finita 7-1, Pelé ha 15 anni. Entra e, ovviamente, segna (“il più giovane…”). Continuerà a farlo sino a entrare, come riserva, tra i convocati del Mondiale di Svezia, dove infrangerà tutti i record. Guadagna una maglia da titolare nella partita dentro o fuori con l’Unione Sovietica assieme a un altro giovanissimo, Garrincha. E non esce più. Mai più. Segna un gol al Galles, tre alla Francia, due nella finale con la Svezia finita 5-2. È nata la Perla Nera. È nato O Rei. Il Re.

Con il Santos vincerà sei campionati brasiliani, due Libertadores e due Coppe Intercontinentali (contro Benfica e Milan): sarà suo anche il Mondiale del 1962 in Cile, dove - causa infortunio - giocò solo le prime due partite. Nel frattempo, José Zaluar, prima vittima di O Rei, pensò bene di guadagnarsi un po’ di notorietà facendosi fare dei biglietti da visita fantasiosi: “L’uomo a cui Pelé fece il suo primo gol”. In un’occasione fu proprio il numero 10 a difendere la porta del Santos contro il Gremio: in palio c’era l’ingresso alla finale del campionato. Il Santos stava vincendo 4-3 quando il portiere fu espulso. Toccò a Pelé, che aveva appena segnato tre gol, prendersi la responsabilità di sostituirlo. Andò bene. Ci sono le foto di quel giorno: lui, con la maglia scura, mentre tiene il pallone in mano tra gli avversari. Abbiamo le prove. Il resto, compresi i 1281 gol (in 1363 partite) che farebbero di lui il più grande marcatore della storia, desta qualche dubbio. Nell’eterna disputa su chi sia stato il migliore di sempre, si prende per buona tutta la mitologia creata intorno a Pelé. Ma le reti ufficiali sono “solo” 784, 761, 767, 757 o 763 a seconda di chi scrive. Insomma, nessuno è riuscito a tenere il conto. Un’enormità in ogni caso, ci mancherebbe. Ma nel mucchio finiscono amichevoli e partite giocate nei tour internazionali. Già, perché il Santos - grazie alla sua popolarità - era diventato un’attrazione globale, una sorta di Harlem Globetrotters del pallone. E il mito di Pelé è stato trasversale quanto quello di Mohammed Ali e pochi altri.

O Rei racconta di un’esibizione in Colombia in cui l'arbitro osò espellerlo, ma le urla inferocite di compagni, avversari e pubblico costrinsero il malcapitato fischietto a lasciare il 10 in campo e ad andarsene lui. Per vedere il suo Santos giocare a Lagos, Nigeria e Biafra, che erano in guerra, stabilirono un cessate il fuoco di 48 ore. Tutti andavano matti per Pelé, a tal punto che, nel 1961, il Brasile decise di renderlo, con un atto governativo, “patrimonio nazionale”. Da quel momento le squadre che si erano messe in fila per acquistarlo (Juventus, Real Madrid, Manchester United e Inter, quella che ci arrivò più vicina) dovettero arrendersi. L’unica altra maglia che indosserà - un anno dopo il ritiro con il Santos - sarà quella dei New York Cosmos. La vestirà per tre stagioni fino al ritiro definitivo nel 1977, portando per la prima volta il “soccer” all’attenzione degli statunitensi.

Non diventerà mai allenatore, quasi a non voler sporcare quella carriera perfetta in campo. Sarà dirigente, ambasciatore dell’Onu e del Comitato Olimpico, e anche ministro dello Sport brasiliano. Non lascerà mai il segno, ma nemmeno passerà inosservato: impossibile per uno come lui. E sbaglierà i pronostici in ogni Mondiale.

E se di Maradona (prima o poi dovevamo nominarlo), e di altri grandi campioni arrivati dopo di lui, abbiamo archivi sterminati, di Pelé si fa fatica a trovare materiale, a tal punto che per riprodurre quello che viene definito il suo gol più bello -  segnato nel 1959 contro i brasiliani del Club Atletico Juventus - si è fatto ricorso ai suoi racconti e alla computer grafica. Una serie di pallonetti che ricorda, moltiplicata e gonfiata, la rete segnata nella finale del 1958 dalla Svezia, ma - a essere sinceri - anche le dimensioni di certi pesci che nessuno ha visto raccontati da certi pescatori. Un’azione che sembra uscita da una Playstation più che da un campo di calcio degli anni Cinquanta.

Tant’è, i quattro gol più famosi di Pelé che possiamo vedere ancora oggi sono tre, perché uno è pura finzione. Anzi due, perché uno se lo ricordano tutti come un gol, ma non lo è. Quello che conoscono tutti è la rovesciata nel film “Fuga per la vittoria”, gli altri due sono quello contro la Svezia e il colpo di testa dell’1-0 nella finale di Messico ’70. Lui sale in cielo e il difensore italiano Burgnich no. Finirà 4-1 per il Brasile e Pelé si prenderà la terza coppa. 

Da rivedere, di quel Mondiale, ci sarebbe anche la miracolosa respinta del portiere inglese Gordon Banks, votata come “parata del secolo”: chi tirò in porta? Pelé, ovviamente. Ma c’è una giocata che perfino O Rei, nella sua ossessione per i gol, dovrebbe rivedere ogni tanto per ricordarsi che la grandezza - sua e di chiunque altro - non si misura sempre e solo in reti segnate, record e obiettivi raggiunti. Si tratta della finta con cui si libera, senza nemmeno toccare la palla, del portiere dell’Uruguay Mazurkiewicz durante la semifinale di Messico ’70. Lanciato in profondità, corre verso il pallone, ma non lo tocca: lo lascia scorrere. Mazurkiewicz, come davanti al trucco di un mago che fa sparire una carta, resta stupefatto e impotente. Pelé lo aggira, va a riprendersi la palla che passeggia da sola e calcia a botta sicura. Non lo ricorda quasi nessuno e non lo diresti mai. Fuori.

Pelé: ottant'anni, tre Mondiali, 1281 gol veri o presunti (anche se lui, ossessionato, dice 1283) e una finta - certificata - da dio, fallibile, del pallone.