Elezioni USA 2016

Mazzoleni: 'Trump come Berlusconi negli anni '90. È la globalizzazione del populismo europeo'. E potrebbe essere solo l'inizio.

Trump poco dopo la certezza della vittoria.
(Mary Altaffer)
9 novembre 2016
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La vittoria di Donald Trump equivale alla globalizzazione del populismo anti-globalizzazione. Ne è convinto il politologo Oscar Mazzoleni, professore all’Università di Losanna.

«Nella storia degli Stati Uniti – spiega – altri candidati hanno proposto visioni anti-establishment e hanno denunciato il declino della maggioranza bianca. Tuttavia non era mai successo che tale approccio risultasse vincente, per giunta all'interno di un partito storico come quello repubblicano».

Insomma, prosegue il nostro interlocutore, «l'America scopre il populismo come è inteso in Europa, ovvero quello anti-establishment, di destra e incentrato soprattutto sui temi come l'immigrazione e la chiusura delle frontiere». Si tratta, per Mazzoleni, di una sorta di cambiamento epocale: «Mentre fino ad ora erano gli europei ad apprendere dagli americani il modo di fare politica, stavolta sono gli Usa ad ‘copiare’. Per certi versi, hanno fatto scuola le esperienze di Berlusconi e di Le Pen».

Il populismo anti-globalizzazione si è pure lui... globalizzato.

«Le soluzioni populiste che hanno seguito crescente in Europa tendono a diffondersi sul piano globale perché esprimono problemi che sono essi stessi globali, soprattutto gli effetti delle incertezze economiche su una parte della popolazione”.

E l'onda lunga di Trump potrebbe tornare in Europa…

«Certo: c’è l'Austria che andrà al voto presto, la Francia e la Germania l'anno prossimo. Sono paesi di peso in Europa dove partiti con orientamenti poco dissimili da quelli di Trump hanno lanciato sfide rilevanti a quelli tradizionali».

Partiti, quelli ‘storici’ che sembrano non sapere come rigirare la frittata…

«La questione è più complicata: in un clima politico dove anche i profili personali contano, eventuali cambiamenti dipenderanno dai singoli candidati e dalla loro capacità di mobilitare l’elettorato».

Cosa attira nei messaggi populisti? È piuttosto la semplificazione estrema dei problemi, la proposta di soluzioni facili o la rassicurazione del "io so come fare"? 

«Il populismo che vince ha tre componenti. La prima prevede di fare appello al popolo come un'entità omogenea e sovrana: nel caso di Trump gli americani e l'idea di America al declino. La seconda è la denuncia del tradimento delle élite nei confronti del popolo. La terza è la promessa di cambiamento per ristabilire la sovranità e il potere del popolo».

Tre elementi che sanno smuovere muovere le masse e portare a risultati inattesi...

«Inattesi perché si continua a sottovalutare quanto la rabbia e il risentimento siano attivabili da un outsider. In questo senso Trump ha un profilo molto simile al Berlusconi nei primi anni Novanta: non è un politico, viene dal mondo dell'imprenditoria e si è fatto (in parte) da sé. È quindi visto come contrapposto all’establishment e in grado di portare al cambiamento».

Si può dire che quella di Trump, così come quella dei populisti, è una vittoria dell'irrazionalità sulla razionalità? Perché in fondo Trump si è autocertificato “molto competente” su molti aspetti chiave, senza però garanzie.

«Sono molto scettico sulla distinzione fra razionalità e irrazionalità: in una campagna polarizzata c’è un amalgama inevitabile. Inoltre, la passione politica ha sempre una componente emozionale. Il populismo semplifica ed è manicheo, ma non vuol dire che per capirlo bisogna essere altrettanto semplificatori. Inoltre, le moderne campagne elettorali, soprattutto in contesti come quello americano, spingono tutti per necessità a semplificare in modo da far passare il messaggio».

I movimenti populisti sembrano resistere anche al fallimento di alcune delle loro promesse. In caso Trump non riesca a mantenere le sue, potrebbe comunque sopravvivere politicamente?

«Sì, almeno in una certa misura. I politici anti-establishment sono eletti sull'onda dell’opposizione, della disaffezione, della rabbia, della disperazione. Oggi, il discorso populista più efficace sembra attribuire alla globalizzazione le ragioni delle frustrazioni e dei timori. E se la stessa globalizzazione e i suoi effetti negativi persistono, questi politici potranno continuare ad appellarsi alla loro immagine di difensori del popolo, addossando la colpa dei problemi allo stesso mondo globalizzato che nel loro paese non possono controllare. 

Anche Trump potrà fare così?

«La posizione di Trump è meno semplice, poiché il suo partito, con cui però dovrà ricucire non pochi strappi, ha la maggioranza al Senato e alla Camera. Sulla carta avrà un potere che Obama non ha avuto in questo mandato. Quindi sarà più facile mettere Trump alla prova delle sue promesse e gli sarà più difficile attribuire ad altri le responsabilità di eventuali mancanze o insuccessi».

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