Distruzioni per l'uso

Sinistrati: la dolorosa crisi della socialdemocrazia

Le evoluzioni sociali ed economiche hanno sfilato il tappeto da sotto i piedi della sinistra. Inaugurando una lunga e dolorosa crisi d'identità.

((YouTube))
3 marzo 2018
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Domani si vota in Italia, e io come sempre son tutto un fremito. La birra è in frigo, il vestaglione di flanella è pronto, e mi predispongo a un rito fantozziano: assistere minuto per minuto alla nuova disfatta del centrosinistra. Come dicono gli anglosassoni, “è come fissare un incidente ferroviario”: sai che sta per succedere un disastro, ma non riesci a distogliere lo sguardo. E poi passeremo giornate intere a commentare gli errori di Renzi, l’irresponsabilità delle schegge impazzite e compagnia bella. Ma c’è qualcosa di più profondo. C’è l’eclissi strutturale, a livello europeo, della stessa sinistra.

Che governa ormai solo in Portogallo, in Grecia (con le mani legate), in Slovacchia (flirtando coi sovranisti di Visegràd), a Malta. Il Partito socialista francese è clinicamente morto, quello tedesco zoppica, e anche per il progressismo svizzero vale Woody Allen: “Dio è morto, Marx è morto, e anch’io non mi sento tanto bene”. Come siamo arrivati a tutto ciò?

 

Vittima di un successo

La fine del comunismo, il crollo del muro di Berlino, si sente spesso rispondere. Mica tanto: quel tipo di sinistra era già in crisi da decenni, e in ogni caso non era mai stata al governo (per fortuna). Il modello vincente, nel Novecento, era semmai quello socialdemocratico. Quello che aveva già rotto col marxismo. In alcuni casi molto presto, come nell’Inghilterra di Beveridge e nella Germania del programma di Bad Godesberg, col quale la Spd abbracciò il capitalismo nel ’59; in altri fin troppo tardi, come in Italia, che ancora negli anni Ottanta si arrovellava sull’eurocomunismo, nobile ma contorsionistico, di Enrico Berlinguer. Quelli dal Dopoguerra agli anni Settanta furono comunque i decenni del trionfo per quel concetto di sviluppo e di diritti dei lavoratori, che ha fondato il moderno welfare state con l’appoggio dei cristiano-sociali.

Oggi quel modello non raccoglie più il consenso delle masse. Gli isolati risvegli – per esempio quando si è chiamati a decidere sul futuro di certi servizi pubblici – sono rondini fuori stagione. Le mille ragioni del declino basterebbero a riempire la vecchia Enciclopedia Einaudi, altro noto feticcio della sinistra che fu. Ma due sono i nodi che mi paiono più importanti: la dissoluzione della “base” che un tempo sosteneva il progressismo, e la contestuale rinascita del nazionalismo.

È una banalità, ma fa bene ricordarlo: la società della settimana lavorativa da 40 ore, dell’istruzione diffusa, delle pensioni e della sanità per tutti nasceva da partiti che avevano nella “classe operaia” il suo zoccolo duro. Duro, perché era gente che tutte le mattine si trovava nelle stesse fabbriche e aziende, condividendo gli stessi problemi, le stesse priorità. Si creava così la leggendaria “coscienza di classe”. Oggi quest’espressione la usa solo qualche nostalgico, di quelli che a settant’anni vanno ancora in giro con l’eskimo. E questo la dice già lunga.

Paradossalmente sono state proprio la sicurezza, la mobilità sociale e il benessere diffuso creati dalla socialdemocrazia a rendere obsolete certe categorie: quelle condizioni hanno permesso anche ai più deboli di superare la loro posizione subordinata, entrando di diritto nella classe media. Come nota Jan Rovny, professore a Sciences Po, “il successo della sinistra ha affrettato la sua stessa liquidazione”. La classe operaia, insomma, è diventata qualcos’altro: impiegati, quadri, docenti; non più massa, ma individui. E a quel punto il consenso per la sinistra si è disgregato.

 

Il post-proletariato

Allo stesso tempo, è cambiata l’economia. Ancora oggi, pensando al “proletariato” (altra parola che quasi ci si vergogna di usare), si può pensare agli operai che lavorano gomito a gomito, come in ‘Tempi moderni’ di Chaplin. Ma se si va a vedere, per esempio, la fabbrica dove producono la Golf, la scena è ben diversa: ci sono enormi robot che assemblano rispettivamente il pianale e l’abitacolo dell’auto, e poi li “incollano” uno sull’altro, come un sandwich. La minuteria la portano dei carrelli teleguidati, e spesso al posto degli operai ci sono dei tecnici che gestiscono il tutto da una specie di cabina di regia. Regna un’atmosfera pulita e silenziosa, visi da middle class opulenta. Un impiego per pochi, fra l’altro; ché ormai siamo nella società dei servizi, bellezza.

Coi piedi nel fango resta un proletariato tutto diverso: dal lavapiatti all’autista di Uber, dal dog-sitter precario al securino a cottimo. Atomizzati, isolati l’uno dall’altro. Per la vecchia sinistra, e per quell’addetto della Volkswagen con un diploma del Technikum e la tessera dell’IG Metall: alieni. È un abisso culturale e sociale, quello che separa il progressismo della classe media e della Bildungsbürgertum (la “borghesia istruita”) all’addetto delle pulizie. Un abisso che la sinistra non è stata in grado di colmare, lasciando campo libero al populismo e alla xenofobia.

 

(Inter)nazionalismo

Così si è aperto un altro fronte, nuovo e vecchissimo insieme: quello fra internazionalisti e nazionalisti. Da una parte della barricata c’è un mondo relativamente benestante, discretamente formato e istruito, che può vivere la globalizzazione come un’opportunità. Gente che negli ultimi quarant’anni ha acquisito una prospettiva sul mondo ben diversa da quella dei compagni d’antan, costringendo anche la sinistra a ibridarsi progressivamente (si pensi al blairismo e al Pd di Renzi).

Dall’altra parte ci sono i nuovi diseredati, vulnerabili alle sirene del protezionismo nazionalista che vorrebbe proteggerli da delocalizzazioni e migranti; stregati dai pifferai del prima i nostri, e in generale da tutti quei venditori di fumo che promettono all’elettore di riportare indietro le lancette dell’economia. E siccome quell’andazzo è del tutto estraneo al codice genetico della sinistra, ci ritroviamo a guardare quel mondo dall’alto al basso, scuotendo la testa sopra al nostro bicchiere di cognac, e facendoci scappare qualche sospiro sulle derive del voto popolare. Passando inevitabilmente per snob e arroganti, e senza grandi soluzioni in mano.

Un incrocio importante, nella storia della sinistra. Ma come scriveva Edmondo Berselli: “C’è sempre di mezzo un tram quando la sinistra attraversa un incrocio”.

 

PS: se volete farvi morettianamente del male con me, seguite la “diretta” delle elezioni italiane su laregione.ch. Si parte domenica sera alle 22, e si va avanti a oltranza.

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