Culture

Il fuoco sulle donne

Domenica si è chiusa la sesta edizione de L'immagine e la parola, dedicata alle 'Voci di donne'; un'occasione per riflettere sui rapporti di genere oggi

La sala gremita del Gran Rex
20 marzo 2018
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È cosa piuttosto bizzarra che, mentre le manifestazioni culturali che ospitano solo uomini non sono rare, raro è che gli organizzatori facciano di tale mascolinità il tema del programma. Per restare nell’ambito de L’immagine e la parola, l’edizione dell’anno scorso, con lo scrittore Edoardo Albinati nelle vesti di curatore ospite, era tutta basata sul cromosoma Y; e tuttavia da nessuna parte si dichiarava l’intento di valorizzare l’universo del maschile, con i suoi peculiari temi e sensibilità. Non erano, quelle degli invitati, “voci maschili”, ma semplicemente “voci” di portata universale. Per contrasto, quest’anno le variopinte e multiformi esperienze delle registe Susanna Nicchiarelli e Laura Bispuri e della scrittrice Antonella Lattanzi, che hanno animato un’edizione peraltro molto interessante e ricca, venivano racchiuse sotto il titolo ‘Voci di donne’. Torna alla mente una famosa osservazione di Simone de Beauvoir, risalente al 1949: “Mi sono irritata talvolta […] nel sentirmi obiettare dagli interlocutori maschili: ‘voi pensate la tal cosa perché siete una donna’; ma io sapevo che la mia sola difesa consisteva nel rispondere: ‘la penso perché è vera’, […] non era il caso di replicare: ‘e voi pensate il contrario perché siete un uomo’; perché è sottinteso che il fatto di essere un uomo non ha nulla di eccezionale”.
L’esperienza dell’uomo è universale, quella della donna particolare; è un vecchio nodo della critica femminista, con cui le varie correnti si sono confrontate in modi diversi. Coloro che, credendo in una differenza essenziale tra maschile e femminile, si propongono di difenderla, mirano a dare uguale valore a entrambe le sfere; altri cercano invece, anche per influsso delle rivendicazioni della comunità LGBT, di scavalcare la dualità maschile/femminile postulandone la costruzione storica e sociale. In quest’ottica il sesso non determina alcuna caratteristica innata; sono le sedimentazioni di secoli di convenzioni che ci portano a credere, ad esempio, che l’empatia è femmina. Da parte mia, vorrei vivere in un mondo in cui il genere, così come il colore della pelle o del passaporto, non sia più importante di quello dei capelli. È vero però che, senza uscire dalla Svizzera, nell’ambito molto concreto della vita quotidiana la parità tra i sessi è tutt’altro che raggiunta, e questo basta a riportare il discorso dalle nebulose dell’idealismo alla polverosa terra.
Da questo punto di vista, la scelta di dedicare L’immagine e la parola alle voci femminili assume una valenza politica; peccato solo che il modo in cui si sia posta la questione non convinca pienamente. Certo è stato importante ribadire, com’è avvenuto nel corso della tavola rotonda ‘Complici e colleghe’ (con protagoniste donne ticinesi attive nel settore audiovisivo, oltre a Nicchiarelli), che ancora oggi per le autrici è effettivamente difficile affermarsi artisticamente. Come ha raccontato Silvana Bezzola, tra i 131 progetti sostenuti tra 2009 e 2017 dalla RSI, solo 24 erano diretti da donne; e questo esempio locale è in linea con quanto accade in gran parte del mondo. Però un discorso del genere, per essere efficace, andrebbe condotto da esponenti di ambo i sessi; invece la tavolata era tutta al femminile, quasi che il problema non riguardasse anche gli uomini.


Autrici e protagoniste


Al numero esiguo delle registe corrisponde un numero ridotto di film incentrati su figure femminili. Nel corso di un laboratorio, Bispuri ha parlato dell’elaborazione di ‘Figlia mia’, dove racconta i rapporti tra una bambina e le sue due madri (adottiva e naturale), e ha colto l’occasione per riflettere sulle implicazioni di raccontare una vicenda al femminile: «Forse, se il fuoco della storia sono tre figure femminili, in questo c’è anche una mia presa di posizione: quando mi dicono che nel film ci sono troppe donne penso che la storia del cinema è piena di film con soli uomini e nessuno si scandalizza». Riguardo al fatto che lo spettatore (e la spettatrice) di un film tende a percepire un cast a forte presenza femminile come insolito, mentre è perfettamente abituato a confrontarsi con storie a larga maggioranza maschile, Nicchiarelli ha commentato: «Se i rapporti quantitativi tra registi e registe cambiassero, si potrebbe smettere di parlare di cinema femminile, che è una definizione che non si può sentire… un film è bello o brutto, non femminile o no! E poi c’è l’equivoco che il cinema femminile sia cinema per donne, e non è così».
Forse proprio per evitare di abusare dell’etichetta del “femminile”, Carlo Chatrian e Daniela Persico, curatori della rassegna, hanno evitato di dare spazio a questo aspetto: fatto salvo per la tavola rotonda, nei laboratori con le ospiti si è evitato di sollevare questioni di genere. Soprattutto è mancato un incontro che le mettesse a confronto, cosa che avrebbe dato più coesione alla rassegna e sarebbe stata occasione per riflettere, anche criticamente, sul tema delle “voci femminili”, oltre che per far dialogare tre autrici accomunate non solo dal cromosoma X, ma anche dal loro statuto di esponenti italiane della generazione X. In quanto nate negli anni 70, infatti, Lattanzi, Bispuri e Nicchiarelli sono cresciute in un periodo particolarmente schizofrenico per quanto riguarda le dinamiche di genere: da una parte, appartengono alla prima generazione cresciuta a stretto contatto con la tv, irradiatrice di stereotipi e modelli; al contempo sono però cresciute in un contesto in cui le rivendicazioni del ’68 stavano iniziando a sedimentare, con la loro carica polemica verso i ruoli precostituiti. Queste opposte tensioni si riflettono nei loro lavori: esemplare il caso del film di Nicchiarelli ‘Nico, 1988’, che nel ritrarre la cantante tedesca si distanzia da un discorso prefabbricato secondo cui il vertice della vita sarebbe costituito da fama, gioventù, bellezza. Da parte sua, Lattanzi ha raccontato come, scrivendo il romanzo ‘Una storia nera’, incentrato su una donna che per anni ha subito i maltrattamenti del marito, abbia cercato di evadere dagli stereotipi vigenti sulla violenza domestica: «Volevo raccontare la storia di una donna che non è vittima né carnefice. Tutti mi dicevano: “È un crinale molto difficile da percorrere”, tanto che a un certo punto ho deciso di lasciare il romanzo. Ma poi mi sono detta che, se avessi rinunciato, avrei tradito la me stessa di terza elementare, quella bambina che voleva fare la scrittrice». Queste opere mostrano quindi che le autrici possono offrire sguardi diversi sul mondo, e non in virtù di una supposta sensibilità femminile, ma perché sono nella posizione di raccontare gli effetti delle pressioni e dei condizionamenti a cui le donne sono esposte in quanto donne.
«A livello di contenuto» ha osservato Nicchiarelli «è vero che possiamo portare novità all’interno dell’immaginario dominante. Poi naturalmente ci sono anche molte registe che rappresentano le donne in modo misogino o stereotipato… Tutte le donne, come tutti gli uomini, sono diverse tra loro; quel che conta è però che, avendo più registe, ci sarebbe una maggiore varietà nel cinema, e questo non può che essere un bene».

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